lunedì 10 novembre 1997

timbuctù o tombouctou, tombutto, tumbutto, tumbyctu, tumbuktu… che dir si voglia, non importa come si scrive, ciò che affascina è il saperla là, il raggiungerla, sulle orme dei primi europei che vi arrivarono nell’ottocento, l’inglese Gordon Laing che non fece più ritorno, il leggendario René Caillé, il francese che vi arrivò travestito da povero arabo e al rientro scrisse la parola fine su quel velo di ricchezza e mistero da cui era circondata, e ancora il famoso esploratore tedesco Heinrich Barth che vi passò dopo esser partito da Tripoli per traversare il sahara e raggiungere il Golfo di Guinea. ho letto da qualche parte che esistono due Timbuctù, la prima è una città del deserto con viuzze silenziose piene di polvere e di sole, la seconda la identifichiamo invece con l’idea del viaggio che ognuno si fa per raggiungere qualcosa di … irraggiungibile, o con quel cartello al uscita di Zagora, nel profondo sud del Marocco, alle porte del deserto, messo là ad avvertire il viandante che occorrono 52 jours de chameau per raggiungerla - e la fantasia vola. seguendo la strada che da Mopti corre fino a Gao, giunti a Douenza, abbandoniamo l’asfalto e, verso nord, iniziamo a seguire la pista, dapprima agevole fino a Barbara Moudì, e poi il deserto. La mente vola indietro negli anni, millenovecentottantotto, eravamo ad arrampicare sulla Main de Fatima, da là abbiamo puntato direttamente su Timbuctù; cinque amici, un vecchio toyota bj, la chiatta fatiscente di Gourma Rharousse, il tuareg con il toy cassé in mezzo al deserto, i resti dell’elicottero di Terry Sabine… ma questa è un’altra storia. ecco ad un tratto, in fondo, il Niger, il traghetto, le prime case, e dopo alcuni chilometri la misteriosa Timbuctù; centinaia di anni fa sorgeva sulle sponde del Niger, ora dista 15-20 chilometri e il deserto continua ad avanzare. Sulla destra l’aeroporto, nell’88 eravamo capitati là in concomitanza con la Paris-Dakar, la vecchia Paris-Dakar, quella gara di piloti-gentiluomini dove l’importante era arrivare, e il premio per tutti era la mitica spiaggia del Lago Rosa. ripercorro le viuzze, mi sembra tutto come allora, faccio amicizia con Kalil, mi fa da guida tra le solite poche cose: le stupende porte lignee, le tre moschee, le case dove abitarono i primi esploratori, la sorgente (pozzo) Tin Boutout che da il nome alla città, il cartello, ogni anno più sbiadito, che recita la città dei 333 santi; più in fondo un internet point: il terzo millennio è arrivato anche qua. L’indomani giro ancora tra le viuzze, e per il mercato, mi scrivo una cartolina: arriverà???? saluto Kalil, per i suoi servigi mi chiede pochi franchi, ci scambiamo la mail, sono passati cinque anni ma il suo augurio di bonne année arriva puntuale, ogni gennaio. scrivo e penso, sogno… hanno detto che chi sogna ad occhi aperti viaggia due volte…

3 commenti:

Anonimo ha detto...

vorrei scrivere mille parole per esprimere il mio senso di gradimento a questo racconto, ma dirò solo quello più mi ha colpito:il sognare è vita, il viaggiare è vita, e il condividere i sogni è già cominciare a costruire la realtà.
sara

Anonimo ha detto...

complimenti,
un bel viaggio......affascinante!
anna

giuly ha detto...

bella, l'Africa, ma quando te venierà con mi e Roby a farte un bel viaggetto in Estremo Oriente?
Giuly